Per l’edizione 2022 Palazzo Reale si propone di riallestire una sala dell’appartamento reale, che vide tra i suoi abitanti Eugenio di Beauharnais, vicere d’Italia in epoca napoleonica, inserendo arredi e oggetti originali del Palazzo Reale recuperati recentemente in diversi depositi del Comune di Milano e della Soprintendenza nell’ambito di un progetto di valorizzazione della storia del Palazzo. In particolare in una sala dell’appartamento reale verranno inseriti importanti arredi corredati da oggetti di grande rilievo artistico come candelabri e orologi del primo Ottocento. Questo allestimento temporaneo non ricalca l’esatta disposizione degli arredi nelle stanze del palazzo, che per altro non avevano una collocazione fissa, ma è volto a ricreare l’atmosfera vissuta nel Palazzo che vedeva le sue stanze ricche di preziosi arredi e importanti oggetti d’arte. |
Il PAC è lo spazio pubblico per l’arte contemporanea a Milano e da oltre quattro decenni indaga la scena artistica nazionale e internazionale sulle tracce della sperimentazione e della ricerca. È fra i primi esempi in Italia di architettura progettata per l’arte contemporanea, simile alle kunsthalle europee e pensata come un’agile struttura espositiva. Costruito sulle ex-scuderie della Villa Reale, distrutte dai bombardamenti del 1943, inaugura nel 1954 come sede per le collezioni civiche del XX secolo, ma subito affianca alla destinazione museale l’attività espositiva temporanea. Con i suoi 1200 mq si articola su tre livelli, differenziati come volumi luminosi, attorno ad un volume centrale che li polarizza e li tiene in rapporto reciproco. Il primo livello, che dialoga con il parco attraverso una grande e luminosa vetrata, fu inizialmente progettato per ospitare opere di scultura. Il livello più elevato, suddiviso nel progetto originario per mezzo di pareti mobili – oggi fisse – fu pensato per la pittura e riceveva luce dall’alto attraverso dei lucernai. Il terzo livello, originariamente destinato all’esposizione di disegni, stampe, fotografia ed oggettistica, è una galleria sopraelevata che si affaccia sul secondo livello con una balconata. Nel 1993 un attentato di matrice mafiosa distrugge il PAC, in un momento storico di fondamentale impegno del Paese nella lotta alla mafia: verrà ricostruito da Ignazio con il figlio Jacopo nel 1996 secondo il progetto originario, con fondamentali migliorie tecniche che lo avvicinarono agli spazi espositivi all’avanguardia.
Foto: Nico Covre, Vulcano |
Da alcuni anni una delle parole chiave della Pinacoteca di Brera è trasparenza. Il museo non è più un luogo percepito come austero e inaccessibile, ma si apre allo sguardo del visitatore (anche del meno esperto), esibisce in filigrana i propri meccanismi e il “dietro le quinte” si fa visibile. Così i depositi diventano non più luoghi oscuri e reconditi, ma spazi che occupano o integrano gli ambienti fruibili del museo, rendendo possibile osservare anche le opere escluse dal percorso espositivo. È il caso delle sale IX e XV, che ospitano le collezioni moderne Jesi e Vitali, mettendole in dialogo con Tintoretto e Veronese, Peterzano e Campi; è il caso soprattutto del grande deposito visibile della sala XXIII dalle cui rastrelliere si affacciano opere valorizzate attraverso una nuova concezione dello spazio museale. Anche il laboratorio di restauro si è trasformato in una teca di vetro, all’interno della quale le attività conservative sono divenute parte integrante della visita alla Pinacoteca. La luminosa struttura trasparente, progettata da Ettore Sottsass nel 2002 e posta al centro del percorso espositivo (sala XVIII), offre al visitatore un’opportunità unica: seguire da vicino e “in diretta” le varie fasi dei restauri, potendo osservare le opere da nuovi punti di vista come il retro, solitamente nascosto. Nel 2018 il laboratorio è stato oggetto di un completo restyling che ha previsto anche il posizionamento di un monitor di grandi dimensioni rivolto verso il pubblico, per consentire con l’utilizzo di immagini e filmati un’efficace informazione sui restauri in corso.
Courtesy Milano, Pinacoteca di Brera |
L’insegnante di Scultura all’Accademia di Brera Giuseppe Franchi (1731-1806) fu l’autore del bozzetto del Carro di Apollo, lavoro che, per conto dell’architetto Piermarini, fu tradotto in stucco da Giocondo Albertolli per il timpano del Teatro alla Scala nel 1778. Albertolli, però, sostituì il putto alato di Franchi con la personificazione dell’immagine della Notte. Questo bassorilievo divenne un simbolo della Scala e fu ripreso dal noto scenografo Alexander Benois nel bozzetto da lui realizzato per la riapertura del Teatro alla Scala nel maggio del 1946, dopo la ricostruzione seguita ai bombardamenti della Seconda Guerra Mondiale. Architettonicamente, la facciata neoclassica della Scala si presenta divisa in tre parti: il portico in bugnato, l’ordine gigante di semicolonne sul quale si aprono porte che immettono alla terrazza (accessibile durante gli intervalli degli spettacoli) e, dopo una fascia marcapiano, la parte sommitale sovrastata dal timpano. Nel sottotetto è ricavato il ridotto delle Gallerie. Il tetto si regge su una struttura a capriate.
Foto: Brescia-Amisano Archivio della Scala |
La Sala Federiciana è l’antica sala di lettura della Biblioteca Ambrosiana e prende il nome dal fondatore dell’Istituzione, il cardinale Federico Borromeo. Essa si presenta tuttora con l’aspetto che le volle dare il cardinale: egli sicuramente esaminò con i suoi architetti i progetti delle biblioteche più all’avanguardia dell’epoca e in particolare si ispirò a quella dell’Escorial a Madrid, voluta da Filippo II, introducendo allo stesso tempo alcune innovazioni. Come all’Escorial, la sala di lettura dell’Ambrosiana non prevedeva tavoli di lettura separati, ciascuno con una propria finestra, né che i libri fossero assicurati ai tavoli con catene, bensì che fossero a diretta disposizione dei lettori negli scaffali. Questo permetteva di avere più spazio per le scaffalature, che correvano senza soluzione di continuità lungo le pareti. Inoltre, per ottimizzare lo spazio disponibile in altezza, Federico scelse di collocare a metà delle pareti un ballatoio a cui si accedeva tramite scale, così che si potessero raggiungere più facilmente i ripiani più alti. L’illuminazione era garantita da due ampi finestroni agli estremi della volta a botte: in questo modo si evitava che la luce diretta infastidisse i lettori. In occasione di MuseoCity 2022, l’Ambrosiana propone un approfondimento sulle vicende legate alla costruzione del primo nucleo della Biblioteca, esponendo, all’interno della Federiciana, alcuni disegni originali degli architetti Francesco Maria Richino e Fabio Mangone.
© Veneranda Biblioteca Ambrosiana / Andrea Pignagnoli |
La Centrale dell’Acqua, antica Centrale Cenisio, è uno dei primi impianti di sollevamento e pompaggio di acqua potabile dell’acquedotto di Milano. Inaugurata nel 1906, nel 2018 è stata riqualificata grazie all’accurato restauro conservativo di MM (ex Metropolitana Milanese). Nello stesso anno l’azienda l’ha riaperta gratuitamente al pubblico in qualità di Museo d’Impresa, con l’obiettivo di far conoscere la storia, i valori e le professioni dell’acqua pubblica. Venne edificata secondo i dettami di uno degli stili in voga a fine Ottocento all’interno dell’eclettismo milanese, il Neo-romanico, le cui sobrie forme architettoniche caratterizzavano e rendevano riconoscibili le infrastrutture pubbliche progettate in quegli anni. |
La sala della Cavalcata del Museo delle Armi “Luigi Marzoli” è senz’altro la più scenografica, con le due pedane composte da due cavalieri a cavallo e tre fanti la prima, due cavalieri e quattro fanti la seconda che si affrontano; inoltre sono esposti sette manichini di cavalieri (con armature da guerra e da torneo), un’esposizione di artiglierie, oltre ad altre svariate armi. Attraverso questa nuova esposizione, la sala documenta l’eccellenza che nel XVI secolo raggiunsero le maestranze bresciane nella produzione di ogni tipologia di arma. Il progetto originale per l’allestimento fu firmato da Carlo Scarpa, che iniziò a costruire la grande finestra centrale, per essere poi bloccato. Tuttavia l’edificio che ospita il Museo, il Mastio Visconteo del Castello di Brescia, è un bene storico, importante tanto quanto la collezione di armi. Infatti la struttura fu edificata nel 1343 da Luchino e Giovanni Visconti, sopra un tempio romano del I secolo d.C., per cambiare volto e uso nel corso dei secoli, dalla dominazione veneziana a quella austriaca, fino al passaggio all’esercito italiano, che lo destinò a prigione, e alla definitiva musealizzazione degli spazi nel secondo dopoguerra. La sala della Cavalcata è la più significativa, in quanto, oltre a una delle rare strutture pensate da Scarpa (il finestrone centrale), sono visibili grandi porzioni degli affreschi viscontei (con rare armi araldiche di Luchino e Giovanni) e porzioni di grande interesse di affreschi di epoca veneziana.
Courtesy archivio fotografico Musei di Brescia |
All’interno del complesso di Santa Giulia si trova un oratorio edificato in età romanica. L’edificio è a pianta quadrata, in possente opera lapidea che include anche numerosi blocchi di pietra risalenti all’età romana, sormontato da un tiburio ottagonale decorato da una loggetta costituita da colonnine e capitelli altomedievali di reimpiego. Un recente intervento ha rinnovato la luce all’interno dell’edificio, mettendo in evidenza la qualità dei materiali, i trattamenti delle superfici, iscrizioni e soggetti dipinti, i preziosi reperti esposti. L’architettura del piano inferiore è impostata su un altare del I secolo d.C. al centro dello spazio, dal quale si dipartono quattro volte a crociera. Le luci radenti enfatizzano la forza di questo luogo e il suo carattere recesso. Una lama di luce accompagna lungo le scale interne verso il piano superiore; qui lo sguardo si libera verso la volta di colore blu lapislazzulo, nella quale sono appuntate stelle in ottone dorato con al centro il Padre Eterno. La luce è irraggiata dal centro di questo luogo mistico, nel quale si trova la Croce di Desiderio, l’oggetto più prezioso del tesoro del monastero medievale. Gli affreschi alle pareti, opera di Floriano Ferramola (1513-1524), sottolineano la funzione religiosa dell’aula e raccontano anche la storia di Santa Giulia, alla quale il monastero deve la denominazione. Una sequenza di diversi scenari di luce permette di vivere un’esperienza unica, cogliendo aspetti e dettagli sinora poco visibili.
Courtesy archivio fotografico Musei di Brescia Credits Fotostudio Rapuzzi |
La scoperta dell’Anfiteatro di Milano nell’area oggi delimitata dalle vie De Amicis, Arena e Conca del Naviglio si deve ad Alda Levi nel 1931. La sua conoscenza si è accresciuta grazie a diverse ricerche. Creato nel 2004, il Parco dell’Anfiteatro romano dal 2018 è interessato da un progetto di ampliamento e valorizzazione promosso dalla Soprintendenza ABAP di Milano che trasformerà l’area nel più esteso parco archeologico cittadino (oltre 22.000 mq): Parco Amphitheatrum Naturae (PAN) permetterà di ricreare con il verde la forma dell’edificio. Le indagini archeologiche in corso stanno riportando alla luce considerevoli porzioni delle fondazioni dell’Anfiteatro insieme a strutture ipogee fino ad ora sconosciute, utilizzate sia per il transito dei gladiatori che per il deflusso delle acque. La facciata, alta più di 38 m e scandita da tre ordini sovrapposti di arcate terminanti con un attico, definiva un’ellisse i cui assi principali misuravano 150 m (E-W) e 120 m (N-S). Le gradinate per il pubblico (cavea) erano sostenute da 84 setti radiali, corrispondenti in facciata ad altrettante arcate. L’accesso principale (Porta Triumphalis) era probabilmente situato all’estremità orientale dell’edificio. Gli alzati dell’impianto risultano sistematicamente spoliati per il recupero di materiali da costruzione (blocchi di pietra e mattoni) così come le strutture ipogee che si sviluppavano lungo gli assi principali. Le spoliazioni hanno risparmiato alcuni elementi decorativi dell’edificio e oggetti d’uso quotidiano che arricchiscono di colori e dettagli l’immagine del monumento. |
Il Pantoscopio conservato presso la Fondazione Cineteca italiana costituisce uno dei manufatti più rappresentativi del Pre-cinema; esso ha introdotto nuovi scenari e stanze dell’arte. Strumento ottico settecentesco di intrattenimento popolare, esso è noto per aver richiamato a sé folle di spettatori incuriositi dalle storie che l’imbonitore era pronto a raccontare. Così, avvicinando lo sguardo alle lenti incastonate nei piccoli fori, era possibile trovarsi in mondi nuovi, viaggiare pur stando fermi, valicare i confini delle caotiche piazze in cui il Pantoscopio trova la sua più fedele appartenenza. Le vedute ottiche al suo interno, infatti, rappresentano piazze e scorci di realtà lontane oltre che episodi di note narrazioni, come nel caso delle due vedute riguardanti la parabola del Figliol prodigo, rivisitate in chiave settecentesca. L’accurato restauro a cui il Pantoscopio è stato sottoposto ha previsto un’iniziale campagna diagnostica volta allo studio dei materiali costituenti e alla definizione della più idonea metodologia di intervento. Quindi, ne è stata realizzata la pulitura, il consolidamento strutturale, la reintegrazione cromatica e il ripristino della corretta funzionalità. In particolare la presenza di Blu di Prussia nella pellicola pittorica originale ci conferma che lo strumento fu realizzato dopo il 1706, anno in cui il pigmento venne scoperto a Berlino da Diesbach e Dippel. |